lunedì 22 ottobre 2012

PARLO DI ME

INTRODUZIONE:Voglio scrivere di me.Dal momento che sono nata,ho sempre creduto di fare parte di un grande tappeto che è la Creazione del mondo.La mia vita è sicuramente non più importante di tante altre vite,però sono sicura della sua originalità.Questa originalità è il motivo che mi invoglia usare le parole per raccontarmi.Preciso l'originalità è in ogni essere vivente infatti sono sicura se testimnoniassimo tutti la originalità del vivere avremmo molte più librerie.Qualcuno ha dato( fortunatamente )ad ognuno uomo la capcità di eprimere la propria orginalità in modo diverso appunto  in maniera originale.

mercoledì 20 giugno 2012

Europei 5

La guerra di Mario

«Questo è un paese oscuro a se stesso, nel quale tutti soffrono più malesseri che dolori, senza capirne con chiarezza il perché», scrive Guido Piovene, e questa frase sembra un pallone che rimbalza veloce fino ad arrivare ai piedi fatati di Mario Balotelli. Più che il suo Europeo, questa sta diventando «la guerra di Mario». Un conflitto costantemente aperto tra lui e il resto del mondo. E non basta un gol all’Irlanda - il secondo in 11 presenze in azzurro - a sbloccarlo, a renderlo più sereno e placarne la rabbia infinita sulla quale sguazzano i tabloid inglesi.

Mentre noi, romantici latini, attratti per perenne spirito esterofilo dal primo “black-italian” della storia del calcio italiano, ci ostiniamo a tracciare ipotesi sociologiche (capro espiatorio del razzismo dilagante) o disquisire fino alla nausea del caso clinico (trauma dell’abbandono del figlio adottivo), degno dell’attenzione di Freud. L’Italia si spacca quando si parla di Balotelli, i tifosi avversari invece diventano delle belve appena vedono entrare la finta vittima sacrificale che in Premier indossò una t-shirt con su scritto «Why always me?».

Già, perché sempre tu Mario? «A 17 anni non si può essere seri», cantava Leo Ferrè e forse i 21 di Balotelli non lo mettono ancora a riparo dalle ingenuità e i limiti di un’adolescenza non ancora conclusa. Non si spiegherebbe altrimenti questo finto ghigno criminale stampato in faccia, che è anche poco credibile, perché poi chi lo conosce a fondo non fa che ripetere: «Mario è un buono, un generoso». Lo sappiamo, anche se non fa notizia Oltremanica, che negli ultimi anni invece dei classici viaggi nelle spiagge vip, ha trascorso il Natale e il Capodanno nelle favelas, con i bambini abbandonati di cui si occupa la Onlus Meu Brasil.

Esperienze da giovane sensibile, maturo, ma poi puntualmente al ritorno in campo, torna quello che non vorrebbe mai essere considerato, uno stupido bad-boy. Non c’è azione o gol mancato che non si azzuffi con l’universo. Otto turni di squalifica al City in questa stagione, un giallo alla prima con la Spagna a Euro2012 e una gomitata da rosso l’altra sera all’irlandese Dunne non vista dall’arbitro e per fortuna non andata a segno. Arbitri e avversari per lui sembrano tutti nemici da abbattere a un videogame. I compagni di Nazionale fanno fatica a tollerarlo e ancor più a frenarlo.

Dopo l’eurogol agli irlandesi, Bonucci ha dovuto compiere l’intervento più difficile della partita: stoppare la bocca carica a pallettoni di Mario. «Stava parlando in inglese, gli è uscito qualcosa di troppo. Lui è fatto così - racconta il difensore. - Aveva tanta rabbia in corpo, l’ha sfogata. Soprattutto, l’ha sfogata con un gol». Ce l’aveva con chi lo fischia e lo massacra con gli oltraggiosi "buu-buu". O con Prandelli, reo di averlo fatto partire dalla panchina. O con il mondo intero. «Siete tutti figli di…», pare abbia urlato al vento di Poznan.

Ma se anche la sportivissima Trap’s Army irlandese - che ha ritmato e applaudito persino all’inno di Mameli - ce l’ha con lui, forse sarebbe il momento che Mario si chiedesse ancora: perché sempre io? Qualcuno dice che Balotelli ce l’avesse con quei media che lo criticano e che non hanno ancora capito di che razza di “genio” si tratti. Leggenda, ma neppure troppa, narra che il 17enne Balotelli, le prime volte che si allenava con la prima squadra dell’Inter in uno dei suoi attimi di umiltà francescana proferì al veterano Hernan Crespo: «Se giochi tu in Serie A, io posso campare di rendita». Il suo unico punto di riferimento, non ha miti, è Zlatan Ibrahimovic, del quale prova a emulare, con un approccio quasi indolente, strafottenza e numeri di alta scuola, ma riuscendoci sempre a metà.

Per questo probabilmente Mario non ha ancora espresso a pieno quel potenziale che si vede che c’è, ma rischia di rimanere sepolto sotto un fascio di muscoli nervosi che producono caos e malessere generale. Mourinho gli ha staccato la stima. «Mi ricorda tanto il giovane Cassano che allenavo io», lo assolve il Trap. Quel Cassano, però di fatto bruciò almeno 5 anni, un terzo della sua carriera, prima di tornare ad essere protagonista nella Samp e in questa Nazionale.

«Auguro a Mario di non fare tutte lo sciocchezze che ho fatto io», gli disse Antonio accogliendolo tempo fa a Casa Azzurri. Ecco, Mario dovrebbe imparare a sorridere un 10% di quello che ride Cassano, ma invece si trincera in un silenzio inquietante, rotto solo dalla musica solitaria di un’i-Pod, mentre con il muso che striscia a terra fugge via. Eppure anche in Polonia, abbiamo visto bambini impazzire per un suo autografo. Mario dinanzi a questi piccoli fans si scioglie, diventa calmo e curioso, come quella volta a Manchester che entrato in un college per sbaglio, poi ha fatto di tutto per visitarlo accompagnato dagli studenti, increduli. Il problema è che appena accenna quel sorriso, l’attimo dopo si rabbuia ed è pronto a lanciare petardi dal balcone di casa, o a vomitare tutto il suo rancore, per qualcosa che non torna nella sua mente confusa e infelice.

E non bastano 4,5 milioni di euro a stagione (tanto gli passano gli sceicchi del Manchester City) per avere uno scampolo di felicità e tanto meno per aspirare a un Pallone d’Oro. Ma soprattutto non basta, ancora, per diventare un uomo vero.

Massimiliano Castellani

martedì 19 giugno 2012

Europei 4

Buongiorno Cassano

FantAntonio sblocca la partita
contro l'Irlanda: «Il mio europeo inizia adesso»

GIULIA ZONCA
inviata a poznan
Da come esulta sembra sempre che Cassano esca da una qualche marachella più che da un gol. Con quei saltelli impazziti, le mani che mulinano e i piedi che continuano a cambiare direzione perché non sa bene chi cercare, chi andare ad abbracciare. Poi si ricorda che ultimamente festeggia alla Totti e si ficca il dito in bocca, più che altro lo morde, ancora confuso sul da farsi. E visto come gli è riuscito forse questo gol è davvero uno scherzo. All’Irlanda e al destino.

Intanto lo segna di testa, fregando il tempo ad Andrews, un pennellone alto quasi 10 cm più di FantAntonio che in teoria sarebbe uno dei pilastri del Trap e poi firma la rete che sblocca la partita otto anni dopo l’inutile gol contro la Bulgaria. Quello vanificato dal biscotto nordico. Sempre l’ultima partita del gruppo C, solo che era l’Euro 2004, a Guimarães e Cassano aveva strappato la vittoria nei minuti di recupero. Poi si era messo a piangere. Zambrotta lo avevano raccolto da terra per costringerlo a uscire. In questa settimana di ansia da fregatura Cassano deve essersi ricordato spesso di quella serata da buttare.

Allora aveva sulle spalle il numero 18, giocava per la Roma, era nel pieno della fase cassanate, dicevano che sarebbe maturato. Non è successo, ma questo attaccante, il migliore nella storia azzurra degli Europei con i suoi tre gol, non è più la stessa persona. Le cassanate persistono, in Polonia ne ha sparata una di cui ancora si sente l’eco. Frase infelice contro i gay (e almeno li avesse chiamati così), poi scuse, rettifica e scarico di responsabilità però in campo una certa maturità si è vista e dopo la gara sereno e lucido ha osato: «Il mio europeo inizia adesso».

Oggi ha il 10 addosso, nessun ct distribuisce quel numero a caso e Prandelli gli ha dato un segnale: una maglia importante per compiti precisi. Lui ha si è fatto trovare pronto, tatticamente disciplinato, disponibile al sacrificio e meno concentrato su se stesso. Non poco per uno abituato a sbattere le porte, litigare con i presidenti e contestare gli allenatori. Non succede più, le cassanate girano al largo dal campo. Cassano sempre titolare, lodato per il lavoro, per le invenzioni. Preferito a Balotelli e tenuto in partita più a lungo anche se a un certo punto le forze lo mollano e deve uscire ogni volta.

E ieri il tempo è scaduto prima del solito. È un miracolato e in definitiva è questo che fa di lui un’altra persona. Il quattro novembre è stato operato al cuore e l’Europeo era l’ultimo dei suoi pensieri. Ha avuto paura di morire, poi ha temuto di dover smettere. Si è spaventato e ha fatto il bilancio con una carriera che troppe volte ha mandato in tilt. Magari non ha messo la testa a posto però si è fatto un’idea più precisa del giocatore che è, ha una posizione e prova a rispettarla. Ieri ha segnato un gol di cui ridere, uno di quelli che sistema più di un risultato perché chiude anche qualche conto il passato. Il biscotto è archiviato.

leggo per sapere

Gli adoratori del «cattivo gusto»

Fino a mezzo secolo fa o poco più la parola Kitsch era solo o quasi sulla bocca dei dotti. Si diceva Kitsch e ci si sentiva à la page. In Italia il termine entrò in voga una quarantina d’anni fa, quando Gillo Dorfles diede alle stampe un libro-antologia del «cattivo gusto».

Che cosa è il Kitsch? La sommatoria di funzioni, segni, linguaggi, cose, parole indipendenti, che normalmente contrastano o non hanno nulla da spartire tra loro, ma, grazie all’artificio del manipolatore, stanno insieme. Convivono felicemente, mischiando le loro qualità eterogenee in una sorta di processo entropico dove dalla confusione può scaturire un ordine, se non nuovo o duraturo, certo diverso e sorprendente: due o più nature che scalpitano in un solo corpo, verrebbe da dire. Gesto magico, o pseuodomagico, del creare un feticcio che esprime «il proprio tempo» come catalizzatore di pulsioni che sfuggono alla «cultura alta».

Difficile dire se prevalga l’ironia – elemento oggi prevalente in ciò che cade, o sembra cadere, sotto la categoria del Kitsch – ma certo fare una mostra-omaggio a Dorfles (che ha la bellezza di 101 anni e scrive, dipinge e lavora ancora alacremente), intitolandola Kitsch oggi il Kitsch è certamente un gioco di «cattivo gusto» sul tema che si vuole illustrare. La parabola attuale del Kitsch è direttamente proporzionale alla sospensione del "giudizio di valore" nell’esercizio della critica.

Ne è corsa di acqua sotto i ponti da quando Hermann Broch associava Kitsch e Male radicale. Da buon tedesco, vedeva nelle cattive manifestazioni estetiche, nel decorativismo, nella menzogna formale, una negazione etica, considerandola la deriva estetizzante del romanticismo. Fu accusato da alcuni di voler ridurre lo spazio di libertà dell’opera d’arte, d’imporre insomma un vicolo etico a ciò che risponde anzitutto a dettati estetici: il bene prima del bello. La ricerca del bello, per Broch, era il sintomo stesso del Kitsch. Ma Kitsch, non come mancanza di arte, semmai come opposto dell’arte; se questa cerca di fare bene, il Kitsch vuole fare bello, e per realizzare questo crea «un proprio sistema in sé conchiuso».

La conferenza dove Broch viene allo scoperto parlando dell’Uomo-del-Kitsch, risale al 1950. Agli uditori del German Club della Yale University tracciò una corrispondenza perfetta, circolare, tra «colui che come produttore d’arte produce il Kitsch e come consumatore d’arte è disposto ad acquistarlo e perfino a pagarlo assai bene». E coglieva in questo fenomeno una espressione schizofrenica delle pulsioni libidiche della borghesia (in contrasto col mito dell’ascetismo morale), e nel culto della bellezza il nuovo ideale religioso dopo quello della dea ragione illuminista: arrivava a dire che «chi in arte si limita a cercare soltanto nuove sfere di bellezza, crea sensazioni, non arte.

L’arte è fatta di intuizioni di realtà, e solo grazie a queste intuizioni essa si solleva al di sopra del Kitsch». L’intuizione maggiore di Broch sta forse nell’idea che Kitsch sia l’espressione dell’«industria dello svago», il Kitsch diverte, ma non va in profondità, non abbaglia, come la vera arte, che accecando ci mostra la verità. Il Kitsch introduce nella visione formale dell’uomo moderno un valore inquinante, corrosivo, mistificatorio, inautentico.

È anticlassico, nell’essenza; non aspira a nulla di più che farsi feticcio di sé stesso, della propria etica "minima": a forza di banale, consumo, trash, gadget, ha imposto alla modernità quella che Sedlmayr definì la "preponderanza del finto", il potere dell’artificio come semplice fuoco pirotecnico, non certo come finzione vitale barocca. Sottilissimo il confine che nel Kitsch separa l’estetico dall’etico. Anzi, a un certo punto, Kitsch è tutto ciò che sale come scoria estetica dalle discariche della modernità. Dovremmo discutere a lungo la insoddisfacente traduzione di Kitsch come "cattivo gusto"; oggi è faticoso parlarne perché è scomparsa dall’orizzonte la parola gusto. Che era quella sensibilità culturale in cui una società intera si riconosceva.

La prima falsificazione, in fondo, si ha con la Gesamtkunstwerk  di Wagner, l’opera d’arte totale, che sembra alludere a un discorso metafisico-estetico, ma in realtà intende l’opera d’arte come il distillato che produce una esperienza storica di popolo, di un popolo, qualcosa in cui quel popolo riconosce il proprio destino. Cosa molto tedesca, anche. E Broch, infatti, lungo il discorso tira in ballo l’esteta Hitler. Ma ciò che aveva ancora sfumature romantiche, nella società postindustriale dove il consumo rappresenta una seconda forma di produttività (oggi, forse, siamo già un passo oltre, se l’economia finanziaria ha cancellato quella del lavoro e consumare significa anzitutto moltiplicare il denaro), in questa società, che chiamiamo anche postmoderna, è la pubblicità che incarna il Kitsch come sublime cattivo gusto.

La pubblicità che, dalle affiche di Toulouse-Lautrec, alle più smaliziate associazioni di elementi perturbanti pensate oggi per attirare l’attenzione non più sul prodotto ma sul marchio, il brand, porta a pieno sviluppo il principio della contaminazione delle funzioni, dei segni, dell’uso. In una prospettiva filogenetica, il Kitsch dei nostri anni non ha nulla a che vedere con l’estetismo di cui parlava Broch, se non sotto il profilo della bellezza menzognera che svuota il giudizio critico di ogni pretesa valoriale. È cambiato il referente sociale: non più la borghesia, ma la massa globale.

Il Kitsch che vediamo alla Triennale – che mischia Dalí e Savinio con le sofisticate parodie di Corrado Bonomi, il postsurrealismo ludico di Carla Tolomeo e di Vanessa Cavallotti col postPop delle fotografie di Martin Parr, i derivati gadgettistici di Rudy van der Velde col catalogo degli "ex voto" al consumismo fotografati da Matteo Girola e Juri Ciani –, in realtà compone una gigantesca Wunderkammer dove il principio del «tutto si tiene»  rende ancor più magmatico un concetto che, proprio nell’ultimo mezzo secolo, si è frazionato in una quantità di significati che vanno dalle derive spontaneistiche del Pop e del Neo Dada, al trash del riciclaggio non più della spazzatura industriale, ma delle miriadi di oggettini, cose e simboli prodotti dal consumo compulsivo della società del terziario avanzato (dove l’oggetto funge da breve sedativo della libido possessiva).

Vagando nelle sale della Triennale, si ha l’impressione di essere entrati in una immensa macchina che non narra più i rituali del desiderio, ma solo le paure e le ansie di una società malata di cleptomania, di accaparramento, dove il comico, l’ironico, il ludico mascherano la dipendenza dalla «roba» che rende Verga un po’ meno lontano. Ma se questo è l’ultimo orizzonte del Kitsch, c’è poco da stare allegri. Broch aveva visto giusto: il Kitsch è quella «non verità» che ci consente di cogliere la verità dell’arte (nella empirica concretezza dell’opera e della sua falsificazione). Ma questo potrebbe essere anche uno specchio ustorio per rileggere l’intero Novecento artistico.
Maurizio Cecchetti
©

sabato 16 giugno 2012

Non dimenticare mai

Grazie a Dio siamo limitati



Jonah Lynch



Poche cose ci danno fastidio quanto il fatto di essere limitati. La parola limite innanzitutto indica la finitezza, un confine. Spesso usiamo la parola in senso negativo. Parliamo dei "nostri limiti", intendendo con ciò che non siamo perfetti. Ma questo è un uso improprio: un conto è il fatto che ho soltanto 24 ore al giorno; un altro che molte di quelle ore le uso male. Il primo, fondamentale senso della parola limite è che io ho un confine, non ho infinite risorse. Come dice il salmo 89: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo» (Sal 89,10). Ecco i termini della questione: abbiamo un desiderio infinito, e pochissimi anni in cui vivere.
Tuttavia, a mio parere, il fatto di essere limitati è un dato positivo e ci insegna cose essenziali per quanto riguarda il nostro rapporto con Dio, con gli altri uomini, e con il lavoro. Pensiamo, ad esempio, alla stretta di mano. Da essa può passare una grande ricchezza di rapporto. Proprio il fatto che le mani sono limitate, che la mia mano non è la mano dell'altro, esse sono il luogo di un incontro.  Il limite è necessario alla comunione: se non ci fosse un confine, non ci sarebbe neanche quella sorpresa e quella gratitudine che sperimentiamo per la vicinanza di un altro. Nel tempo si impara che un rapporto stabile vive solo nel rispetto dei propri e altrui limiti, come accade nella fedeltà del matrimonio.
Più in generale, attraverso la mia mortalità imparo che non sono il creatore, imparo che dipendo. Dipendo persino dal cibo e dall’acqua, dipendo dal sonno. Il mio corpo mi insegna che non sono autosufficiente. Ma da questo imparo a chiedere da dove vengo e dove vado. Imparo che il mondo è buono, che è bello, e che non deriva da me. Mi precede, è più grande di me.
Dipendo anche dagli altri uomini, ad esempio nel lavoro. Ma l’interdipendenza è anche ciò che ci permette di costruire una grande opera. Collaborare con altri vuol dire fatica, compromessi, inefficienza. Ma se potessi fare tutto da solo, sarei più povero: quella scintilla creativa che nasce nel dialogo, vuol dire sostegno reciproco in tempi difficili, vuol dire amicizia, vuol dire possibilità di imparare e di crescere.
Insomma, qualunque lavoro è troppo piccolo per il nostro cuore. Siamo fatti per l'infinito e ci troviamo sempre a fare cose finite. Allora ci sono due radicali possibilità: o la realtà è negativa, un terribile inganno seguito dalla morte, in cui il meglio che si possa fare è tiranneggiare il più possibile; oppure si può trovare l'infinito all'interno delle cose pur limitate. Possiamo amare la materia stessa che ci è davanti, accettando di essere limitati dai confini dell'opera che stiamo compiendo.
Per me, l'incarnazione è il più potente insegnamento in questo senso. L'infinito stesso, Dio, si è incarnato dentro un uomo particolarissimo, soggetto come tutti noi alla stanchezza, alla tristezza, alla fame, alla sete. Egli ha vissuto con pochi discepoli, si è comunicato in modo diretto a loro, e ha affidato tutta la storia della sua Chiesa a questa trasmissione diretta di persona in persona. Non ha voluto saltare i limiti: al contrario, ha voluto che proprio dentro i limiti della carne, del tempo e dello spazio, persino dentro i limiti della morte, l'infinito fosse presente.


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giovedì 14 giugno 2012

Europei di calcio fuori dal campo 2

Calcio e gay, cassanate a parte

La dichiarazione di Alessandro Cecchi Paone, sulla presenza tra gli Azzurri di due calciatori omosessuali, offerta a Cassano come un pallone da palleggiare. Negli anni Trenta, però...

 
Alessandro Cecchi Paone ha dato i numeri senza fare tutti i nomi: in Nazionale ci sarebbero due calciatori  omosessuali, uno dei quali un tempo amico suo, due calciatori bisessuali,  tre calciatori eterosessuali anzi metrosexual, cioè eterosessuali però dediti ad una cura del corpo e degli abiti tipicamente femminile. Questi ultimi tre sarebbero Abate, Giovinco e Montolivo. 

La dichiarazione composita del celebre personaggio televisivo, protagonista di un outing di adesione personale all’omosessualità poco dopo avere festeggiato le nozze con una bellissima spagnola, è stata offerta, come un pallone da palleggiare, ad  Antonio Cassano, mandato in conferenza-stampa dal citì Prandelli a parlare di un po’di tutto, di Balotelli suo sciagurato compagno d’attacco contro la Spagna (meglio Cassano investito del  ruolo di portavoce  azzurro di giornata di Cassano che si mette magari a parlare a ruota libera, deve avere pensato lo stesso Prandelli), come delle frasi di Cecchi Paone, in fondo non inattese visto che da tempo circola nel calcio la domanda ormai rituale alla quale manca una risposta univoca: ci sono gay nella calcio? E nella Nazionale?

Il giocatore, appunto replicando a Cecchi Paone dietro sollecitazione di un giornalista, ha detto di non saper niente di gay in squadra, ha precisato che comunque non sono affari suoi, ma ha usato, nel dirlo, anche almeno un termine pesante, da omofobo. E ha dovuto scusarsi, disomofobizzarsi. Grande la eco, molti i rumori di fondo. Nel migliore dei casi, un diversivo, visto che ci si sta appropinquando al match con la Croazia in piena angoscia, come da copione. Comunque l’argomento non sembra chiuso, anche se non si capisce bene perché sia stato aperto. Per inciso segnaliamo che nel Mondiale del 2010 in Sudafrica c’era nella squadra azzurra un calciatore con seri problemi di cocaina, ma non se ne parlò, chissà se per paura, per rispetto o per mancanza di un Cassano dedito alle sue cassanate.

Nel non lontanissimo anno 1982, in occasione del Mondiale in Spagna, bastarono due intriganti righe su un giornale italiano, con riferimento al semplice fatto che Paolo Rossi ed Antonio Cabrini avevano voluto dormire nella stessa camera, per scatenare le malissime lingue e obbligare il citì Bearzot ad instaurare il silenzio-stampa, promuovendo anzi obbligando il quasi muto Zoff a portavoce. La squadra, tranquilla, arrivò al successo finale. Chissà adesso.

La domanda con cassanata praticamente incorporata nella risposta era comunque nell’aria. Pochi mesi fa c’erano state voci di presenze gay fra i calciatori italiani, Marcello Lippi ex citì le aveva escluse, almeno fra gli azzurri cioè nel mondo più suo, mentre Damiano Tommasi, presidente dei calciatori, non aveva escluso il fenomeno però aveva invitato tutti a non andare a fondo col gossip e altro, ritenendo l’ambiente del calcio nostro non ancora maturo per affrontare il tema con forza e chiarezza. Il festival del film omosessuale di Torino aveva fatto da cassa di risonanza alla questione, con produzioni sull’outing anche nello sport

E c’era stato chi, raschiando nel barile della memoria più che sfogliando archivi poveri, aveva ripescato voci peraltro assai vaghe di omosessualità di giocatori nel giro della Roma del primo dopoguerra, nonché voci decisamente meno vaghe riferentisi a un gruppo di calciatori laziali, vicini allo scandalo del Totonero (dunque a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta) e vacanzieri particolari di gruppo in un resort dentro un’oasi algerina. Niente di più, e la questione dell’omosessualità nel calcio (mai sfiorati altri sport) era rimasta in sonno per anni e anni, al massimo con pettegolezzi sparsi e deboli su Tizio e Caio. C’era stata – ecco - una vignetta impagabile, l’ammucchiata dei calciatori a festeggiare un gol e uno che, sommerso dagli abbracci dei compagni, dice ad un altro impegnato a omaggiarlo come tutti: “Ma noi due dobbiamo continuare a frequentarci così?”.

Andando molto ma molto indietro, agli anni Trenta, si trova però qualcosa di, come dire?, fondato, anche se non fra calciatori in attività: un celebre allenatore fu cacciato dal suo celeberrimo club, dopo una serie di campionati vinti anzi dominati, per sospetti forti di omosessualità da spogliatoio (si mormorò anche di pedofilia); un celebre ex calciatore, divenuto celebre allenatore dopo essere stato fra i giocatori preferiti in casa Mussolini, nonostante il fascismo machista fascista da lui esibito, fu sempre sospettato di mancanza di coraggio per fare o accettare quell’outing che invece al suo predecessore era stato praticamente e rudemente imposto.

Da registrare infine anche la scoperta di una omosessualità, come dire?, trasversale italo-brasiliana: quella di un calciatore sudamericano, in arte calcistica Vampeta, assunto dall’Inter (roba di pochi anni fa), tenuto pochi mesi e quasi mai fatto giocare perché troppo frivolo ed etereo sul campo, lui che era in realtà un’icona “ufficiale” del mondo gay del suo Brasile, dove animava riviste, poster, scene di vita assolutamente extracalcistica.


Gian Paolo Ormezzano

Europei di calcio fuori dal campo 1

Cassano, elogio della ragione



Luca Doninelli


giovedì 14 giugno 2012

Parlare in difesa della ragione, soprattutto in questi giorni, è la sola cosa sensata. E poiché questa cosa va fatta, è bene sapere, fin da principio che un simile atto richiede un certo coraggio, in un frangente in cui sembra sia diventato impossibile esprimere qualunque opinione divergente anche di un millimetro dalla tirannia dei luoghi comuni. È evidente che vogliono distogliere il nostro sguardo da qualcosa di molto grave, spronandoci a parlare di fatti senza importanza. A un certo punto, però, sembra che perfino discutere di quei fatterelli sia diventato impossibile.
Ne dico due. Insisto: sono sciocchezze. La prima è lo scandalo-Cassano. Pur giocando nel Milan, Cassano è un uomo più intelligente della media. Ha guadagnato abbastanza soldi da non doversi vergognare troppo della propria ignoranza, però quello che dice ha sempre un senso. In questi giorni la sua opinione sulla possibile presenza di calciatori gay nella nazionale italiana ha fatto il giro del mondo, suscitando uno scandalo annunciato.
Nel concerto per soli ottoni che ne è seguito mi hanno colpito le dichiarazioni di un presentatore tv gay, il quale, forse confortato dalla certezza che le sue parole sarebbero state collocate dalla parte giusta, e che la sua immagine di persona mentalmente aperta ne avrebbe tratto giovamento, ha pensato di rivelare la propria relazione con un calciatore, dimostrandosi molto bene informato circa la componente gay, bi e metrosexual nella nostra Nazionale di calcio.
Non m’interessa, qui, dare ragione all’uno e torto all’altro. Però, nel teatrino, Cassano fa la parte del cattivo e il tetro presentatore quella del buono. E questa è un’ipocrisia grande come una casa.
Io però dico che non conviene, nemmeno ai mezzi d’informazione più schierati, farla così facile, visto che facile non è. Basterebbe chiedere (a microfono chiuso) ai nuovi benpensanti se preferirebbero che il loro figlio maschio adolescente uscisse la sera con Cassano o con il presentatore, e sono sicuro che le percentuali della ragione e del torto cambierebbero di parecchio.
Non etichettiamoli come pregiudizi - parola di cui ho il sospetto ci sfugga completamente il significato. La questione è molto più profonda, e credere di risolverla cercando dispositivi di normalizzazione sociale è una pura utopia, perché questi non sono pregiudizi, in quanto richiedono una decisione di fondo circa la natura dell’uomo. E su questo, mi sia concesso, dobbiamo pretendere perlomeno il diritto alla discussione, perché nulla, nel dramma della vita, è indiscutibile. L’uomo ha la necessità di essere radicalmente persuaso, e per produrre persuasione, mi spiace tanto, ci vuole una sola cosa: la verità. Sissignori, proprio lei, l’esiliata da tutti i vocabolari civili.
La violenza superficiale dei media non serve. Anzi, sotto sotto cova la rivolta, così che possiamo svegliarci una bella mattina e scoprire, dopo trent’anni di buone maniere, che i cinquantenni sono molto meno omofobi dei ventenni. Ma della verità, e quindi della ragione, che è la sua umile contadina, non importa più nulla a coloro che vorrebbero indirizzare i pensieri della gente. Anche se lei continua a esserci, eccome.
E c’è, per esempio - secondo piccolo episodio - nella vicenda delle dimissioni del sindaco milanese Pisapia da commissario Expo. Tra i diversi modi a sua disposizione (per esempio, rimboccarsi le maniche e lavorare sodo, rompendo le scatole ovunque) per richiamare tutti i partner Expo all’azione, visto l’approssimarsi della scadenza, lui ha scelto di dare le dimissioni, di trarsi d’impaccio conservando il proprio pedigree immacolato e lasciando ad altri il proverbiale cerino acceso. Il suo è stato un atto di viltà, uno scaricamento bello e buono di responsabilità. Questo è il nome proprio della sua azione. Ha sentito puzza di bruciato e si è tolto di mezzo, tutto qui.
Probabilmente io avrei fatto peggio di lui, perciò non intendo condannarlo per questo. Però non facciamolo passare per un atto di coraggio e di responsabilità, visto che è l’esatto contrario, perché di questo passo le parole significheranno il proprio opposto, come sta già cominciando ad accadere, e non è un male da poco.
A furia di usare la comunicazione in modo così scriteriato, senza nessun rispetto della natura delle cose, finiremo - noi e la nostra multimedialità, noi e la nostra smart city, noi e i nostri splendidi modelli di sviluppo che in due anni sono diventati concime per i campi - per produrre uomini con la vita strozzata in fondo alla gola, autistici, afasici, incapaci di dire perfino “bello”, “brutto”, “mi piace” o “ti voglio bene”.
Pensiamo anche al futuro, ogni tanto. Ma quello vero.


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