Prigioniera della Parola........
lunedì 22 ottobre 2012
PARLO DI ME
INTRODUZIONE:Voglio scrivere di me.Dal momento che sono nata,ho sempre creduto di fare parte di un grande tappeto che è la Creazione del mondo.La mia vita è sicuramente non più importante di tante altre vite,però sono sicura della sua originalità.Questa originalità è il motivo che mi invoglia usare le parole per raccontarmi.Preciso l'originalità è in ogni essere vivente infatti sono sicura se testimnoniassimo tutti la originalità del vivere avremmo molte più librerie.Qualcuno ha dato( fortunatamente )ad ognuno uomo la capcità di eprimere la propria orginalità in modo diverso appunto in maniera originale.
mercoledì 20 giugno 2012
martedì 19 giugno 2012
Europei 4
Buongiorno Cassano
FantAntonio sblocca la partita
contro l'Irlanda: «Il mio europeo inizia adesso»
GIULIA ZONCA
inviata a poznan
Da come esulta sembra sempre che Cassano esca da una qualche marachella più che da un gol. Con quei saltelli impazziti, le mani che mulinano e i piedi che continuano a cambiare direzione perché non sa bene chi cercare, chi andare ad abbracciare. Poi si ricorda che ultimamente festeggia alla Totti e si ficca il dito in bocca, più che altro lo morde, ancora confuso sul da farsi. E visto come gli è riuscito forse questo gol è davvero uno scherzo. All’Irlanda e al destino.
Intanto lo segna di testa, fregando il tempo ad Andrews, un pennellone alto quasi 10 cm più di FantAntonio che in teoria sarebbe uno dei pilastri del Trap e poi firma la rete che sblocca la partita otto anni dopo l’inutile gol contro la Bulgaria. Quello vanificato dal biscotto nordico. Sempre l’ultima partita del gruppo C, solo che era l’Euro 2004, a Guimarães e Cassano aveva strappato la vittoria nei minuti di recupero. Poi si era messo a piangere. Zambrotta lo avevano raccolto da terra per costringerlo a uscire. In questa settimana di ansia da fregatura Cassano deve essersi ricordato spesso di quella serata da buttare.
Allora aveva sulle spalle il numero 18, giocava per la Roma, era nel pieno della fase cassanate, dicevano che sarebbe maturato. Non è successo, ma questo attaccante, il migliore nella storia azzurra degli Europei con i suoi tre gol, non è più la stessa persona. Le cassanate persistono, in Polonia ne ha sparata una di cui ancora si sente l’eco. Frase infelice contro i gay (e almeno li avesse chiamati così), poi scuse, rettifica e scarico di responsabilità però in campo una certa maturità si è vista e dopo la gara sereno e lucido ha osato: «Il mio europeo inizia adesso».
Oggi ha il 10 addosso, nessun ct distribuisce quel numero a caso e Prandelli gli ha dato un segnale: una maglia importante per compiti precisi. Lui ha si è fatto trovare pronto, tatticamente disciplinato, disponibile al sacrificio e meno concentrato su se stesso. Non poco per uno abituato a sbattere le porte, litigare con i presidenti e contestare gli allenatori. Non succede più, le cassanate girano al largo dal campo. Cassano sempre titolare, lodato per il lavoro, per le invenzioni. Preferito a Balotelli e tenuto in partita più a lungo anche se a un certo punto le forze lo mollano e deve uscire ogni volta.
E ieri il tempo è scaduto prima del solito. È un miracolato e in definitiva è questo che fa di lui un’altra persona. Il quattro novembre è stato operato al cuore e l’Europeo era l’ultimo dei suoi pensieri. Ha avuto paura di morire, poi ha temuto di dover smettere. Si è spaventato e ha fatto il bilancio con una carriera che troppe volte ha mandato in tilt. Magari non ha messo la testa a posto però si è fatto un’idea più precisa del giocatore che è, ha una posizione e prova a rispettarla. Ieri ha segnato un gol di cui ridere, uno di quelli che sistema più di un risultato perché chiude anche qualche conto il passato. Il biscotto è archiviato.
Intanto lo segna di testa, fregando il tempo ad Andrews, un pennellone alto quasi 10 cm più di FantAntonio che in teoria sarebbe uno dei pilastri del Trap e poi firma la rete che sblocca la partita otto anni dopo l’inutile gol contro la Bulgaria. Quello vanificato dal biscotto nordico. Sempre l’ultima partita del gruppo C, solo che era l’Euro 2004, a Guimarães e Cassano aveva strappato la vittoria nei minuti di recupero. Poi si era messo a piangere. Zambrotta lo avevano raccolto da terra per costringerlo a uscire. In questa settimana di ansia da fregatura Cassano deve essersi ricordato spesso di quella serata da buttare.
Allora aveva sulle spalle il numero 18, giocava per la Roma, era nel pieno della fase cassanate, dicevano che sarebbe maturato. Non è successo, ma questo attaccante, il migliore nella storia azzurra degli Europei con i suoi tre gol, non è più la stessa persona. Le cassanate persistono, in Polonia ne ha sparata una di cui ancora si sente l’eco. Frase infelice contro i gay (e almeno li avesse chiamati così), poi scuse, rettifica e scarico di responsabilità però in campo una certa maturità si è vista e dopo la gara sereno e lucido ha osato: «Il mio europeo inizia adesso».
Oggi ha il 10 addosso, nessun ct distribuisce quel numero a caso e Prandelli gli ha dato un segnale: una maglia importante per compiti precisi. Lui ha si è fatto trovare pronto, tatticamente disciplinato, disponibile al sacrificio e meno concentrato su se stesso. Non poco per uno abituato a sbattere le porte, litigare con i presidenti e contestare gli allenatori. Non succede più, le cassanate girano al largo dal campo. Cassano sempre titolare, lodato per il lavoro, per le invenzioni. Preferito a Balotelli e tenuto in partita più a lungo anche se a un certo punto le forze lo mollano e deve uscire ogni volta.
E ieri il tempo è scaduto prima del solito. È un miracolato e in definitiva è questo che fa di lui un’altra persona. Il quattro novembre è stato operato al cuore e l’Europeo era l’ultimo dei suoi pensieri. Ha avuto paura di morire, poi ha temuto di dover smettere. Si è spaventato e ha fatto il bilancio con una carriera che troppe volte ha mandato in tilt. Magari non ha messo la testa a posto però si è fatto un’idea più precisa del giocatore che è, ha una posizione e prova a rispettarla. Ieri ha segnato un gol di cui ridere, uno di quelli che sistema più di un risultato perché chiude anche qualche conto il passato. Il biscotto è archiviato.
sabato 16 giugno 2012
Non dimenticare mai
Grazie a Dio siamo limitati
Jonah Lynch
Poche cose ci danno fastidio quanto il fatto di essere limitati. La parola limite innanzitutto indica la finitezza, un confine. Spesso usiamo la parola in senso negativo. Parliamo dei "nostri limiti", intendendo con ciò che non siamo perfetti. Ma questo è un uso improprio: un conto è il fatto che ho soltanto 24 ore al giorno; un altro che molte di quelle ore le uso male. Il primo, fondamentale senso della parola limite è che io ho un confine, non ho infinite risorse. Come dice il salmo 89: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo» (Sal 89,10). Ecco i termini della questione: abbiamo un desiderio infinito, e pochissimi anni in cui vivere.
Tuttavia, a mio parere, il fatto di essere limitati è un dato positivo e ci insegna cose essenziali per quanto riguarda il nostro rapporto con Dio, con gli altri uomini, e con il lavoro. Pensiamo, ad esempio, alla stretta di mano. Da essa può passare una grande ricchezza di rapporto. Proprio il fatto che le mani sono limitate, che la mia mano non è la mano dell'altro, esse sono il luogo di un incontro. Il limite è necessario alla comunione: se non ci fosse un confine, non ci sarebbe neanche quella sorpresa e quella gratitudine che sperimentiamo per la vicinanza di un altro. Nel tempo si impara che un rapporto stabile vive solo nel rispetto dei propri e altrui limiti, come accade nella fedeltà del matrimonio.
Più in generale, attraverso la mia mortalità imparo che non sono il creatore, imparo che dipendo. Dipendo persino dal cibo e dall’acqua, dipendo dal sonno. Il mio corpo mi insegna che non sono autosufficiente. Ma da questo imparo a chiedere da dove vengo e dove vado. Imparo che il mondo è buono, che è bello, e che non deriva da me. Mi precede, è più grande di me.
Dipendo anche dagli altri uomini, ad esempio nel lavoro. Ma l’interdipendenza è anche ciò che ci permette di costruire una grande opera. Collaborare con altri vuol dire fatica, compromessi, inefficienza. Ma se potessi fare tutto da solo, sarei più povero: quella scintilla creativa che nasce nel dialogo, vuol dire sostegno reciproco in tempi difficili, vuol dire amicizia, vuol dire possibilità di imparare e di crescere.
Insomma, qualunque lavoro è troppo piccolo per il nostro cuore. Siamo fatti per l'infinito e ci troviamo sempre a fare cose finite. Allora ci sono due radicali possibilità: o la realtà è negativa, un terribile inganno seguito dalla morte, in cui il meglio che si possa fare è tiranneggiare il più possibile; oppure si può trovare l'infinito all'interno delle cose pur limitate. Possiamo amare la materia stessa che ci è davanti, accettando di essere limitati dai confini dell'opera che stiamo compiendo.
Per me, l'incarnazione è il più potente insegnamento in questo senso. L'infinito stesso, Dio, si è incarnato dentro un uomo particolarissimo, soggetto come tutti noi alla stanchezza, alla tristezza, alla fame, alla sete. Egli ha vissuto con pochi discepoli, si è comunicato in modo diretto a loro, e ha affidato tutta la storia della sua Chiesa a questa trasmissione diretta di persona in persona. Non ha voluto saltare i limiti: al contrario, ha voluto che proprio dentro i limiti della carne, del tempo e dello spazio, persino dentro i limiti della morte, l'infinito fosse presente.
© Riproduzione riservata.
giovedì 14 giugno 2012
Europei di calcio fuori dal campo 2
Calcio e gay, cassanate a parte
La dichiarazione di Alessandro Cecchi Paone, sulla presenza tra gli Azzurri di due calciatori omosessuali, offerta a Cassano come un pallone da palleggiare. Negli anni Trenta, però...
Alessandro Cecchi Paone ha dato i numeri senza fare tutti i nomi: in Nazionale ci sarebbero due calciatori omosessuali, uno dei quali un tempo amico suo, due calciatori bisessuali, tre calciatori eterosessuali anzi metrosexual, cioè eterosessuali però dediti ad una cura del corpo e degli abiti tipicamente femminile. Questi ultimi tre sarebbero Abate, Giovinco e Montolivo.
La dichiarazione composita del celebre personaggio televisivo, protagonista di un outing di adesione personale all’omosessualità poco dopo avere festeggiato le nozze con una bellissima spagnola, è stata offerta, come un pallone da palleggiare, ad Antonio Cassano, mandato in conferenza-stampa dal citì Prandelli a parlare di un po’di tutto, di Balotelli suo sciagurato compagno d’attacco contro la Spagna (meglio Cassano investito del ruolo di portavoce azzurro di giornata di Cassano che si mette magari a parlare a ruota libera, deve avere pensato lo stesso Prandelli), come delle frasi di Cecchi Paone, in fondo non inattese visto che da tempo circola nel calcio la domanda ormai rituale alla quale manca una risposta univoca: ci sono gay nella calcio? E nella Nazionale?
Il giocatore, appunto replicando a Cecchi Paone dietro sollecitazione di un giornalista, ha detto di non saper niente di gay in squadra, ha precisato che comunque non sono affari suoi, ma ha usato, nel dirlo, anche almeno un termine pesante, da omofobo. E ha dovuto scusarsi, disomofobizzarsi. Grande la eco, molti i rumori di fondo. Nel migliore dei casi, un diversivo, visto che ci si sta appropinquando al match con la Croazia in piena angoscia, come da copione. Comunque l’argomento non sembra chiuso, anche se non si capisce bene perché sia stato aperto. Per inciso segnaliamo che nel Mondiale del 2010 in Sudafrica c’era nella squadra azzurra un calciatore con seri problemi di cocaina, ma non se ne parlò, chissà se per paura, per rispetto o per mancanza di un Cassano dedito alle sue cassanate.
Nel non lontanissimo anno 1982, in occasione del Mondiale in Spagna, bastarono due intriganti righe su un giornale italiano, con riferimento al semplice fatto che Paolo Rossi ed Antonio Cabrini avevano voluto dormire nella stessa camera, per scatenare le malissime lingue e obbligare il citì Bearzot ad instaurare il silenzio-stampa, promuovendo anzi obbligando il quasi muto Zoff a portavoce. La squadra, tranquilla, arrivò al successo finale. Chissà adesso.
La domanda con cassanata praticamente incorporata nella risposta era comunque nell’aria. Pochi mesi fa c’erano state voci di presenze gay fra i calciatori italiani, Marcello Lippi ex citì le aveva escluse, almeno fra gli azzurri cioè nel mondo più suo, mentre Damiano Tommasi, presidente dei calciatori, non aveva escluso il fenomeno però aveva invitato tutti a non andare a fondo col gossip e altro, ritenendo l’ambiente del calcio nostro non ancora maturo per affrontare il tema con forza e chiarezza. Il festival del film omosessuale di Torino aveva fatto da cassa di risonanza alla questione, con produzioni sull’outing anche nello sport
E c’era stato chi, raschiando nel barile della memoria più che sfogliando archivi poveri, aveva ripescato voci peraltro assai vaghe di omosessualità di giocatori nel giro della Roma del primo dopoguerra, nonché voci decisamente meno vaghe riferentisi a un gruppo di calciatori laziali, vicini allo scandalo del Totonero (dunque a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta) e vacanzieri particolari di gruppo in un resort dentro un’oasi algerina. Niente di più, e la questione dell’omosessualità nel calcio (mai sfiorati altri sport) era rimasta in sonno per anni e anni, al massimo con pettegolezzi sparsi e deboli su Tizio e Caio. C’era stata – ecco - una vignetta impagabile, l’ammucchiata dei calciatori a festeggiare un gol e uno che, sommerso dagli abbracci dei compagni, dice ad un altro impegnato a omaggiarlo come tutti: “Ma noi due dobbiamo continuare a frequentarci così?”.
Andando molto ma molto indietro, agli anni Trenta, si trova però qualcosa di, come dire?, fondato, anche se non fra calciatori in attività: un celebre allenatore fu cacciato dal suo celeberrimo club, dopo una serie di campionati vinti anzi dominati, per sospetti forti di omosessualità da spogliatoio (si mormorò anche di pedofilia); un celebre ex calciatore, divenuto celebre allenatore dopo essere stato fra i giocatori preferiti in casa Mussolini, nonostante il fascismo machista fascista da lui esibito, fu sempre sospettato di mancanza di coraggio per fare o accettare quell’outing che invece al suo predecessore era stato praticamente e rudemente imposto.
Da registrare infine anche la scoperta di una omosessualità, come dire?, trasversale italo-brasiliana: quella di un calciatore sudamericano, in arte calcistica Vampeta, assunto dall’Inter (roba di pochi anni fa), tenuto pochi mesi e quasi mai fatto giocare perché troppo frivolo ed etereo sul campo, lui che era in realtà un’icona “ufficiale” del mondo gay del suo Brasile, dove animava riviste, poster, scene di vita assolutamente extracalcistica.
Gian Paolo Ormezzano
Europei di calcio fuori dal campo 1
Cassano, elogio della ragione
Luca Doninelli
giovedì 14 giugno 2012
Parlare in difesa della ragione, soprattutto in questi giorni, è la sola cosa sensata. E poiché questa cosa va fatta, è bene sapere, fin da principio che un simile atto richiede un certo coraggio, in un frangente in cui sembra sia diventato impossibile esprimere qualunque opinione divergente anche di un millimetro dalla tirannia dei luoghi comuni. È evidente che vogliono distogliere il nostro sguardo da qualcosa di molto grave, spronandoci a parlare di fatti senza importanza. A un certo punto, però, sembra che perfino discutere di quei fatterelli sia diventato impossibile.
Ne dico due. Insisto: sono sciocchezze. La prima è lo scandalo-Cassano. Pur giocando nel Milan, Cassano è un uomo più intelligente della media. Ha guadagnato abbastanza soldi da non doversi vergognare troppo della propria ignoranza, però quello che dice ha sempre un senso. In questi giorni la sua opinione sulla possibile presenza di calciatori gay nella nazionale italiana ha fatto il giro del mondo, suscitando uno scandalo annunciato.
Nel concerto per soli ottoni che ne è seguito mi hanno colpito le dichiarazioni di un presentatore tv gay, il quale, forse confortato dalla certezza che le sue parole sarebbero state collocate dalla parte giusta, e che la sua immagine di persona mentalmente aperta ne avrebbe tratto giovamento, ha pensato di rivelare la propria relazione con un calciatore, dimostrandosi molto bene informato circa la componente gay, bi e metrosexual nella nostra Nazionale di calcio.
Non m’interessa, qui, dare ragione all’uno e torto all’altro. Però, nel teatrino, Cassano fa la parte del cattivo e il tetro presentatore quella del buono. E questa è un’ipocrisia grande come una casa.
Io però dico che non conviene, nemmeno ai mezzi d’informazione più schierati, farla così facile, visto che facile non è. Basterebbe chiedere (a microfono chiuso) ai nuovi benpensanti se preferirebbero che il loro figlio maschio adolescente uscisse la sera con Cassano o con il presentatore, e sono sicuro che le percentuali della ragione e del torto cambierebbero di parecchio.
Non etichettiamoli come pregiudizi - parola di cui ho il sospetto ci sfugga completamente il significato. La questione è molto più profonda, e credere di risolverla cercando dispositivi di normalizzazione sociale è una pura utopia, perché questi non sono pregiudizi, in quanto richiedono una decisione di fondo circa la natura dell’uomo. E su questo, mi sia concesso, dobbiamo pretendere perlomeno il diritto alla discussione, perché nulla, nel dramma della vita, è indiscutibile. L’uomo ha la necessità di essere radicalmente persuaso, e per produrre persuasione, mi spiace tanto, ci vuole una sola cosa: la verità. Sissignori, proprio lei, l’esiliata da tutti i vocabolari civili.
La violenza superficiale dei media non serve. Anzi, sotto sotto cova la rivolta, così che possiamo svegliarci una bella mattina e scoprire, dopo trent’anni di buone maniere, che i cinquantenni sono molto meno omofobi dei ventenni. Ma della verità, e quindi della ragione, che è la sua umile contadina, non importa più nulla a coloro che vorrebbero indirizzare i pensieri della gente. Anche se lei continua a esserci, eccome.
E c’è, per esempio - secondo piccolo episodio - nella vicenda delle dimissioni del sindaco milanese Pisapia da commissario Expo. Tra i diversi modi a sua disposizione (per esempio, rimboccarsi le maniche e lavorare sodo, rompendo le scatole ovunque) per richiamare tutti i partner Expo all’azione, visto l’approssimarsi della scadenza, lui ha scelto di dare le dimissioni, di trarsi d’impaccio conservando il proprio pedigree immacolato e lasciando ad altri il proverbiale cerino acceso. Il suo è stato un atto di viltà, uno scaricamento bello e buono di responsabilità. Questo è il nome proprio della sua azione. Ha sentito puzza di bruciato e si è tolto di mezzo, tutto qui.
Probabilmente io avrei fatto peggio di lui, perciò non intendo condannarlo per questo. Però non facciamolo passare per un atto di coraggio e di responsabilità, visto che è l’esatto contrario, perché di questo passo le parole significheranno il proprio opposto, come sta già cominciando ad accadere, e non è un male da poco.
A furia di usare la comunicazione in modo così scriteriato, senza nessun rispetto della natura delle cose, finiremo - noi e la nostra multimedialità, noi e la nostra smart city, noi e i nostri splendidi modelli di sviluppo che in due anni sono diventati concime per i campi - per produrre uomini con la vita strozzata in fondo alla gola, autistici, afasici, incapaci di dire perfino “bello”, “brutto”, “mi piace” o “ti voglio bene”.
Pensiamo anche al futuro, ogni tanto. Ma quello vero.
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